“LA STANZA” Luciano Monti

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“…di qui m’allontanai ch’ero fanciullo ed ora vi ritorno e sono uomo…”
Sándor Petõfi

Una campana suonava mezzogiorno. L’odore pungente d’aglio e
rosmarino volavano per le pareti bianche di calce – l’odore saliva dal
basso, infilandosi nelle numerose fessure della porta fatta d’assi sconquassate dagli anni e dai tarli, sottile come un filo di lana, sottile e
profumato da non credere… poi svolazzando languidamente raggiungeva
il soffitto alto, dove un raggio di luce caldo e luminoso si era infilato con la forza di una coltellata violenta e decisa, rischiarando di rimbalzo un’immagine ingiallita appesa su di un enorme comò impolverato.
Quell’odore forte zigzagava come l’oscuro moscone ronzante che
faceva le sue forzate scorribande per l’enorme stanza, catturato forse
da qualche odore e penetrato come un ladro da una setola della finestra
che dava sull’orto del nonno Giovanni.
La mosca ora attraversava nervosamente il piccolo fascio di luce
che sembrava tagliare in due lo stanzone, schiarendosi per un attimo
in un blu d’oriente poi ritornava scuro come d’incanto, e subito dopo
turchese, fino a che svaniva come inghiottito dall’armadiaccio appoggiato
nell’angolo.
Andrea scostò le ruvide lenzuola che lo coprivano quasi completamente,
e tirò fuori la testina nera dal suo “nido” calduccio: il suo
viso di bimbo assonnato rimase per un attimo fermo, poi si sfregò gli
occhietti color tabacco, gli stessi di suo padre Guido, solo che questi,
certe volte avevano dei mutevoli riflessi paglierini, come un campo di
granaglie che rinvigoriva le sue guanciotte d’ocra ricoperte da una
lieve lanugine.
Il suo sguardo curioso si posò sulla lunga e tortuosa lingua giallognola
e appiccicosa che pendeva dalle pesanti travi di legno e iniziò
a contare: “Una due tre quattro cinque!”, alla sesta mosca s’interruppe,
perché da un angolo buio, dove di solito il nonno teneva uno
sgangherato paniere di vinco colmo di piccole mele selvatiche che lui
chiamava “pumbrieglie”, come d’incanto ricomparve il grosso e ronzante
moscone.
L’ospite alato salì come uno zampillo invisibile dietro al pesante
lume cosparso di fitti puntini bruni, aggirò l’ostacolo, una…due volte:
“Speriamo che s’attacchi, speriamo che ci caschi!”, diceva tra sé il piccolo
Andrea, rimanendo immobile per non spaventarlo. Intanto lui
continuava il suo giro d’ispezione attorno a quella “boa” di vetro picchiettato
da minuscoli nei: ma questo non si decideva mai a posarsi
sulla penzolante striscia gommosa, che a guardarla bene pareva un
pentagramma riempito di strane biscrome alate, da chissà quale bizzarro
compositore e quel suo noioso ronzio innervosiva Andrea, che
sembrava suggerirgli coi suoi occhietti la via da seguire, ma l’altro che
ora sembrava planare sulla fettuccia, dove altri svolazzanti insetti
ombrosi erano atterrati, per burlarsi di lui, spariva chissà dove,
lasciando vuoto quello spazio attorno alla trappola vischiosa:
“Accidenti, se n’è andato! NO… eccolo! dai, dai brutto schifoso!”.
Era tornato di nuovo, certo era lui! Andrea lo aspettava in quel
magico silenzio che inondava la stanza del vecchio Giovanni.
Il nonno non aveva molti anni, ma a quell’età tutto sembra più
grande e ai suoi occhi di bimbo pareva addirittura vecchio – certe
volte però, quel suo volto burbero e rugoso gli pareva quello di un
ragazzo… un ragazzaccio; per le spassose burle che tirava a tutti, e
così toccò proprio a lui: il più piccolo! Proprio la sera prima, quando
dopo aver bestemmiato tutto il santo giorno con i suoi “sumarun”,
così chiamava il sei figli; il nonno lo aveva preso per mano,
dopo essersi raschiata la gola e cacciato un robusto sputo sul fuoco
che languendo allagava di fumo tutta la cucina, aveva biascicato:
“Stasera verrai a dormire con me… sei contento?” – poi storcendo lo
sguardo verso la tavolata scomposta dov’erano ancora seduti gli
“Sfaticati” figli, indicando lo zio Gigino “Tanto qui non mi da retta
nessuno… ma non finirà cosi?”, ma il colpevole come niente fosse,
alzando le spalle curve guardava oltre il vetro sporco della finestra
dove minuscole luci lontane sembravano palpitare attraverso i rami
polverosi delle tamerici piantate dietro la buca fumante del letame, la
stessa che l’anno prima aveva accolto le spoglie mortali del povero
maiale inseguito da “Briton” col coltello in mano.
Il povero animale che dopo un anno di sacrifici era stato tirato su
con quel poco che si poteva mettere insieme in casa e fuori casa,
rudando una volta nella barbabietola di “Frison”, quando il vecchio
e sordo “Luisin” che stava di sentinella ai campi, intorpidito dai
vapori del “mezzo vino”, s’assopiva sotto le frasche ombrose degli
olmi, dietro il confine e allora i miei zii che come dicevano in paese
“…Chi Méspevli i frega anche e fòg mal pèpi!” saltando il fosso che
divideva il campo, facevano man bassa, tirando qualche raggrinzita
barbabietola per le “orecchie” con forza e poi di corsa su per il greppo
trasportavano fino a casa la refurtiva che la nonna verso sera affettava
con cura per rimpinguare il loro “salvadanaio” dalla carne saporitissima.
Oppure rubando le pannocchie di granoturco dei
“Cudein”, che poveri loro non sapevano mettere insieme il pranzo
con la cena, tanta era la miseria che li abbracciava dentro e fuori il
piccolo podere piantato nella fonda, che il sole lo vedevano si e no a
mezzogiorno; e quando questo dopo la sua corsa mattutina si piantava
alto a picco sulla casupola, per misericordia divina allungava un
tiepido raggio e lo faceva calare: prima tra i coppi sollevati dai nidi
degli storni e dei passerotti, poi tra i “grisolini” strappati, fermandosi
al centro della minuscola e fredda cucina per aspettare qualche
minuto… allora tutta la nidiata Sisto, Cleto, Mario, Massimo, la
Pipina e Olga la più piccola e sveglia della famiglia, si accovacciavano
come pulcini, stretti stretti, l’uno all’altro, sotto quella calda doccia
di luce che li scaldava per pochi minuti e poi spariva, lasciandoli
nel buio a battere i denti dal freddo.
Pensava al povero maiale tirato fuori del porcile con l’inganno:
una manata di ghiande profumate che il nonno gli metteva sotto al
muso impastato di mondezza ed una nenia mormorata per una buona
mezzora vicino alle orecchie accartocciate “Minò, Minòn vin ad fura
dè tu nòn… Minòn, Minòn…vin ad fura cut fa bòn…”, poi quando
lui “ringalluzzito” dal dolce sapore dei frutti e persuaso dalla cantilena
si era portato nell’aia, dove vicino al biroccio bolliva un’enorme
botte d’acqua fumante, Fredo con la sua mano “buona” l’aveva preso
al laccio e in un batter d’occhi gli aveva girato attorno ai garretti lerci
un grosso spago per tenerlo buono nell’attesa che lo scannino facesse
quello che doveva fare.
Allora da dietro alla pagliaia rosicchiata dalla tramontana, era
apparso lui… “Briton”, alto e secco da far paura con un cappellaccio
di pelo in testa, scuro in volto con in mano un coltello affilato e luccicante
ai vividi raggi scagliati lungo il Conca da un sole che aveva fretta
d’addormentarsi oltre “i gessi”… a quella vista il maiale ebbe un
sussulto, alzò il muso digrignando i “dentacci”, emise un grugnito di
terrore e diede forza alle sue gambe più che poté, la corda si ruppe e
lui preso dalla disperazione che precede il colpo dello “scannino”, si
liberò dalle mani callose del suo carnefice che stava per “battezzarlo”.
Come un forsennato partì a testa bassa grugnendo e scaraventando
col muso il povero macellaio che cadde all’indietro come un tronco
sotto la mannaia, incendiando l’aria già incandescente di “grasse”
bestemmie; poi guadagnata la libertà si diresse verso il piccolo steccato
di canne che faceva da recinto all’orticello di nonna Gina e coi
suoi due quintali e passa di peso lo piegò come un foglio di carta
straccia; le sue zampe unghiose tritavano i “gobbi” che schizzavano
per l’aria mischiati alla creta.
Tutti urlavano, compresa la povera nonna che aveva fatto di tutto
per “tirare su” quei pochi gambi arrugginiti dalla brina, quei cavoli
che piacevano tanto al suo Giovanni e lui se li mangiava accartocciati
tra due piade di “farina gialla” condita con un’unghia di lardo “E
baghin… ciapè che baghin… porca dla putanacia!”
Il grosso porco nel suo passaggio, aveva tranciato in pochi minuti
tutti i sacrifici della nonna, che ora con le mani sugli occhi strillava,
ma non osava guardare il frutto delle sue fatiche, che ora era solo
buono per il trito dei polli.
Il bestione color fragola con tutte le setole rizzate dallo spavento,
nella sua “passeggiata” aveva tritato una ventina tra cavoli e gobbi, e
non si fermava; a lui non lo fermava neanche il diavolo: tra le bestemmie
che in quei momenti parevano grugniti e i grugniti giaculatorie,
come un ossesso sparì dietro al capanno rappezzato di cartoni e latta
che serviva da latrina, lasciando al suo passaggio un enorme solco.
Briton ripresosi dallo stupore rincorreva quella furia, affondando
i suoi scarponi scuciti nella fangaglia “Per di là! …Giovanni,
Lino…”, urlava il nonno roteando una corda tra le mani paonazze…
state attenti che non vada…”, “…la buca, la buca!”, ribatté a squarciagola
Guglielmo – al suono di quella parola, tutte le bocche spalancate
dei disperati inseguitori di maiali si chiusero ed un silenzio
improvviso s’impossessò di loro. Quella strana calma durò il tempo
di un respiro, perché un tonfo secco ed un grugnito soffocò in un
gorgoglio frenetico e convulso… “Il maiale, la buca!”, Briton, il
nonno e Lino si trovarono l’uno dinanzi all’altro a ripetere quelle due
brevi e maledette parole, mentre la sagoma rosa spariva nella fossa
del letame, che pareva bollire.
I tre si avvicinarono desolati alla fossa che dava proprio sullo
“stalletto” con la porticina ancora spalancata… lo sventurato animale,
in quella sua sgroppata finale, scampato agli aguzzini prima di
rientrare nella sua “dimora”, non aveva certamente veduta la trappola
che l’attendeva… scansato all’aguzzo coltello prima, ora, inglorio-
samente affogava nella sua stessa ripugnante mondezza poi!
Stramberie della sorte !
Briton non perse tempo e buttato il coltellaccio che ancora stringeva
in mano, si gettò nella pozza dei liquami che sembrò risucchiarlo,
poi mosse le sue lunghe dita nella melma puzzolente per scandagliare
come poteva, e quando finalmente ebbe trovato, urlò “L’ho
preso… l’ho preso! “, allora il suo busto s’inclinò come un vinco, fino
a sfiorare col mento smussato la latrina borbottante – diede uno strattone…
qualcosa d’impreciso affiorò in superficie: era il posteriore del
maiale. Rotondo, scuro e gocciolante come un cappello da prete sotto
uno scroscio d’acqua.
Il nonno porse una robusta fune all’uomo insozzato fino alla testa
di urine ed escrementi, che teso per lo sforzo mostrava dei grossi
segmenti violacei lungo il collo, la corda s’annodò alla bestia, poi tutti
e due, issarono quella palla gonfia di grasso e d’altro…
L’amara vicenda del maiale affogato, fu il pretesto per creare
attorno al nome di Briton, un’altra gustosa storiella di paese, ed il suo
nome l’indomani fu sulla bocca di tutto il popolino ridanciano di Cà
Manghin. Da quella volta lo “scanna porci” fu così battezzato
“Briton d’la litréna”.
Andrea contento e stordito da quel fumo d’ulivo che gli prendeva
la gola delicata, guardava il nonno che ora abbandonata la cucina si
era girato e tenendolo per mano, a testa bassa lo trascinava per la traballante
scaletta che portava alla sua camera.
Quell’enorme vano dall’alto soffitto zeppo di meraviglie; aveva un
pavimento di mattoni rossi consumati e traballanti; e ad ogni passo
pareva che il mondo gli dondolasse sotto i piedi, e ogni minimo
rumore veniva amplificato e cresceva, dilatandosi come in una botte
gigantesca creando una magia che ti entrava dentro.
Nel fondo addossato alla parete dipinta di calcina, un massiccio
letto con la spalliera sormontata da due bocce d’ottone che luccicavano
al tremolio della lampada a petrolio riflettevano strani sprazzi di
luce sulla coperta di lana grezza “Ti sei fatta la permanente coi baiocchi
del tenente…”, canticchiava allegramente il nonno più curvo che
mai: si perché Giovanni aveva la schiena piegata dalla scogliosi, ma
ancor più per le fatiche sofferte su quella terra magra e avara, che non
“rendeva” quasi niente e dalla trincea sul Carso. Quei lunghi e gelidi
anni trascorsi al fronte gli avevano infradiciato le ossa: martoriato dai
colpi di mortaio e dalle pallottole sibilanti dei “cecchini” Austriaci,
lontano dalla sua Romagna, in “quota”, avvolto da lerce lenzuola di
neve fredda come il fiato della morte che certe volte pareva giocasse
con lui; in quelle interminabili sere buie, accese solo dai lontani
“Bengala”. Quell’inutile guerra lo aveva mangiato dentro, piano
piano riducendolo più corto e ingobbito… ma lui non voleva arrendersi
a questa condanna che gli torceva la schiena nerboruta, ma non
l’orgoglio di cocciuto “Méspévli”.
La nonna mi raccontava, che di nascosto più d’una volta, l’aveva
visto armeggiare dietro al pozzo, al sicuro dagli sguardi dei figli; ma
soprattutto da quello della sua donna… legarsi dietro la schiena
un’asse di pino stagionato, poi dopo avere infilata la parte bassa tra il
muretto e quella alta ad un ramo del melo cotogno, con tutta la rabbia
che aveva in corpo, stringendo i denti aveva tirato come un ossesso,
con la speranza di raddrizzare la sua “disgrazia”.
Quella faticosa ginnastica però non durò a lungo, perché una sera
d’ottobre nonna Gina sentì un gran fracasso seguito da un grido: “A’m
sò indréz… àm sò indréz!!!”, l’asse aveva “mollato” ed il nonno era
crollato a terra; poi ripresosi dallo stupore s’era alzato e saltellando era
sparito su per la scala, inseguito dalla moglie impaurita. Quando lo
raggiunse, lui stava ritto impettito davanti allo specchio raggiante di
gioia, tirando in dentro pancia nel pigiama di fustagno e mettendosi
ora davanti, ora dietro e poi di profilo per stimare con l’occhio furbo,
quanto mai poteva essersi raddrizzato e fischiettando come un ragazzotto
dondolava la testa scura come un galletto quando canta le ore.
Il piccolo Andrea amava il nonno, lo amava ed allo stesso tempo
lo temeva; però quella sera l’aveva visto canticchiare e questo era un
buon segno, così con fare sicuro chiese: “Nonno, raccontami la storia
degli spiriti!”. Quante volte l’aveva ascoltata, quante volte aveva
tremato come un filo d’erba, quante volte aveva sognato… voleva
sentire i brividi corrergli giù per la schiena, voleva sentire le coperte
avvolte strette strette, al suo corpicino popolarsi di strane presenza,
di sentirsi soffocato da un misteriosa e gigantesca mano e di chiamare
disperatamente mamma, mamma!
Il nonno non rispose, stava armeggiando piegato dietro al letto,
diede un colpo di tosse secco e poi si alzò tenendo in mano una specie
di elmetto Inglese, smaltato di bianco e senza parlare lo pose ai
piedi di Andrea che subito capì, ma rimase fermo a fissare quel pitale
che pareva trapassato dalle pallottole del “fronte” tanto era scheggiato
“Dai, datti da fare…”, borbottò nonno Giovanni, che ora stava
seduto su di una seggiola in testa al letto.
Un filo trasparente e curvo sembrava legare il bambino al vaso da
notte che diffondeva uno stentato tintinnio “Hai finito! “, a quella
precisa domanda del nonno, quell’esile filo di seta si spezzò di colpo,
Andrea timidamente si girò dall’altra parte nascondendosi allo sguardo
del vecchio, che si tolse di bocca il mozzicone puzzolente del
“toscano” e lo gettò nell’orinale inumidito dal poco liquido dorato.
Il materasso imbottito di foglie di frumentone, sotto il peso del
nonno sprofondava frusciando, quel suono di foglie secche riempiva
il silenzio che odorava di cose povere ed in esse s’annidava qualcosa
di fantastico che solo a quell’età prende tutti i nostri sensi attenti; e
in quell’atmosfera carica di mistero la voce lamentosa e distaccata del
nonno iniziò il racconto: “Era una notte buia e senza stelle, tornavo
dall’osteria di Tabig, fischiettando, camminavo a passi svelti, rincorso
dalle folate gelide della tramontana che s’infilavano sotto al mio
pastrano dandomi brividi di freddo; avevo appena passato la curva
che costeggiava la scura casa di Bigoz, dalla sua stalla s’udivano strani
muggiti di vacche inquiete che risuonavano tristemente dietro alla
siepe di melograno, una luna gonfia si stendeva sulle nubi spumose
orlate d’argento, che parevano cullarla amorevolmente in alto al di
sopra della sagoma catramosa di Gemmano che a tratti mostrava piccoli
occhi accesi nelle povere case sperdute.
Fischiavo, ma il suono spariva subito rubato dalle ventate; allora
una di queste più rabbiosa delle altre, mi fece volare il cappello dalla
testa, che ondeggiando si posò su di un boschetto di prugnolo rinsecchito,
poi inquieto rotolò come una palla sgonfia e scomparve dietro
al tronco di uno dei secolari cipressi.
Corsi subito per riprendere quel maledetto cappellaccio imprecando
contro tutto e tutti, gli occhi lacrimosi per le frustate d’aria
m’impedivano di vedere chiaramente, annaspai dietro al grosso tronco
tra i cespugli spinosi con le mani divorate dal freddo… niente
“Accidentaccio!”, frugai ostinatamente, infine stanco mi alzai per
riprendere fiato, avanzai di qualche passo e fui davanti al cancello
spalancato del piccolo cimitero di Croce: le raffiche scuotevano le
chiome alte che sembravano abbracciarsi tra di loro, dentro sopra il
tappeto d’erba le tombe vibravano al chiarore di qualche fiammella
rimasta miracolosamente accesa “Il cappello!” gridai contento, il mio
cappello era la posato ai piedi di un vaso di coccio infranto, entrai nel
cimitero “Ma nonno!” sussurrò con un filino di voce Andrea sepolto
dalle coperte che puzzavano di tabacco “Ma… ma non avevi
paura!!!”, “Io, io non ho paura di niente!” sbottò senza nessuna
emozione il nonno “Il mio cappello era dentro al cimitero, tutto
pieno di polvere… il mio cappello da una lira!”, mi affrettai a raccoglierlo,
lo ripulii con cura avviandomi all’uscita: attorno a me tutto
sembrava lamentarsi, sentivo fruscii, cigolii e persino dei guaiti di
cane, feci due tre passi e poi segnandomi la fronte rinchiusi il cancello
frettolosamente.
Con il cappello calcato in testa ripresi il mio cammino verso casa,
ma ecco che qualcosa d’impreciso e biancastro sembrò venirmi
incontro, continuai a camminare, mancava ancora una buona mezzo-
ra prima di arrivare; in quel momento avevo voglia di fumare un altro
“mezzo”, mi fermai estrassi il sigaro e lo infilai in bocca per inumidirlo,
sputando via la punta di tabacco. Era un impresa accendere lo
zolfanello, così decisi di mettermi contro il muro del cimitero per
ripararmi dagli spifferi feroci, ma la capocchia si sbriciolò incendiandosi
in una luce violacea. Riprovai con maggiore attenzione, la fiamma
guizzò con baldanza, accostai il “toscanello” tremolante e aspirai
con veloci boccate, quando mi scostai dal muro alzai lo sguardo:
davanti a me apparve una cosa orrenda e terrificante: “PPPPRRRTTT!!!”,
echeggiò sorda, improvvisa, e inaspettata una solenne
scoreggia, seguita da una risata divertita e sfottente, che lasciò
Andrea senza fiato dalla paura e soprattutto per la puzza insopportabile
che si sparse sotto le coperte.
Intanto, nella camera Andrea continuava a fissare quel dannato
moscone che roteava nella penombra come un ubriaco; poi improvvisamente
si tuffò in picchiata sulla carta collosa penzolante dal soffitto…
scosse le ali di carta velina in un fremito disperato.
Finalmente era caduto nella trappola… si udì un ronzio che subito
si spense “Ci sei cascato stupido!!!” ghignò soddisfatto il piccolo
saltando sul pagliericcio cigolante.
“Andrea, Andrea, svegliati dormiglione!”, la figura sottile della
nonna comparve spalancando la porta, lasciando entrare nella stanza
un rifolo di luce intensa. S’avvicinò a lui con in mano una tazza colma
di latte fumante e profumato, “Bevi che ti fa bene!” poi sparì di sotto
a governare le bestie che muggendo reclamavano la loro razione di
fieno.
La tazzona smaltata scottava tra le sue piccole mani e lui prese a
soffiarvi dentro per freddarla un poco, poi per un istante si distrasse
ad inseguire i raggi di sole traballanti che sgattaiolavano dalle fessure
della “persiana” semiaperta. In quell’attimo il moscone che pareva
morto stecchito ebbe un guizzo estremo, vibrò le piccole elitre appiccicaticce
finché riuscì a staccarsi, ma conciato per le feste com’era,
non andò molto lontano: con un piccolo volo sparì nella ciotola
fumante di Andrea e subito come di rimbalzo ritornò a galla pancia
all’aria.
Quella mattina Andrea rimase digiuno e immusonito, poi più
tardi inviperito rubò una mestola alla nonna e con quell’arnese, fino
a sera diede la caccia alle mosche e a tutto ciò che volava.

Luciano Monti dal volume di racconti “L’altrove “

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