A proposito di tartufo

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Il mio primo approccio con il tartufo è stato negli anni ’50 (avevo 7 anni), ma non è stato proprio idilliaco. Al babbo era stato regalato da un suo ex scolaro di corsi serali, vincitore di concorso per aiuto macchinisti ed assunto nelle gloriose FF.SS. nel compartimento di Torino, un sacchettino contenente quattro generosi tartufi albesi.

Il tartufo era per la mia famiglia come un oggetto misterioso, non era mai entrato nella nostra casa e la mamma, seppure ottima e brava cuoca non era mai stata alla prese con quel tubero che diffondeva un forte odore… io dicevo più propriamente puzzo.

Non esisteva l’aiuto di Internet, le amicizie di Facebook dovevano ancora essere inventate e fra i parenti più stretti era come parlare di cose marziane.

Le uniche informazioni la mamma le trovò nella rubrica culinaria del giornale “La Madre” redatto a Brescia con uscita mensile. La mamma prese le quattro patatine, le nettò della terra e le mise in un vaso di vetro coprendole con riso e riponendole nel frigorifero.

Il frigorifero occupava molta parte della cucina perché era massiccio ma non certo capiente come quelli di oggi. Sulla grande porta bianca bombata spiccava, a lettere dorate e a caratteri corsivi il marchio Ignis.

L’isolamento dall’ambiente esterno era garantito da spesse pareti e dal grande portellone. Oggi ne possiamo trovare presso i negozi di vintage e modernariato e venduti come complementi originari d’arredo.

Vi chiederete perché in casa Pasini, in tempi di ristrettezze economiche fosse già arrivato quell’elettrodomestico. Fino a quel momento gli alimenti che necessitavano di una conservazione in ambiente fresco venivano messi in un secchio e calato nel pozzo che era stato ricavato nel cortile di casa, in via Monte Titano al civico 20.

L’epoca dei grandi acquisti doveva ancora arrivare, ma alimenti come per esempio il burro e qualche altro prodotto venivano conservati, certamente per tempi brevi, in questa maniera.

Ho già scritto in altri miei racconti della lunga malattia (ben nove anni) di mio fratello Vittorio Antonio, poi deceduto nel 1958, ebbene alcune medicine e soprattutto alcune fiale di iniezioni dovevano essere conservate in un ambiente vicino allo zero che poteva essere garantito solo con l’ausilio del frigorifero.

Le ghiacciaie che venivano rifornite con le grosse stecche di ghiaccio non assicuravano una temperatura costante. Per questo motivo, con grossi sacrifici il babbo acquistò presso la ditta Valentini elettrodomestici quel frigorifero pagandolo a rate garantite dalla sola fiducia (Il prestito al consumo delle finanziarie non era ancora stato ideato).

Tornando alle quattro patatine di tartufo.

Quando si apriva il frigo, malgrado il tartufo fosse ben chiuso in un vasetto di vetro, il “puzzo” inondava la cucina. Quei tartufi furono consumati in prevalenza dal babbo, affettati sulla cotoletta ripassata nel sugo, sull’uovo all’occhio di bue o su un piatto di tagliatelle… e per terminare e recuperare il riso nel quale erano stati conservati e che ne aveva preso l’aroma, con un favoloso risotto.

Il successivo approccio con il tartufo fu nel 1970. Tornando da un breve soggiorno, oggi si dice week-end trascorso a San Godenzo, in prossimità del Muraglione, ci fermammo (Bruna, la nostra primogenita Monica ed io) a pranzo in una trattoria nei pressi di Forlì.

Mi ero sposato l’anno prima con Bruna, una giovane conosciuta sul posto di lavoro e che aveva trascorso i suoi anni adolescenziali a Torino, pur essendo romagnola in quanto nata a San Clemente. Il ristorante – trattoria era quasi al completo, ma un tavolino e un seggiolone per la nostra piccola, furono trovati.

Ordinammo un abbondante piatto di tagliatelle al ragù che dopo poco ci furono servite ancora fumanti. Il cameriere ci chiese se una grattatina di tartufo fosse stato di nostro gradimento. Io rimasi un poco perplesso ricordando il precedente mio incontro con il tartufo, mentre Bruna ne fu entusiasta provenendo da una storica regione tartuficera

Il cameriere tornò con una bella patatina di profumato tartufo e ne affettò in abbondanza sulle tagliatelle di Bruna che sprigionarono immediatamente un forte aroma olfattivo, che non mi parve essere il “puzzo” di tanti anni prima.

Bruna golosamente e avidamente cominciò a mangiare. Poi venne il mio turno e il cameriere provvide ad affettarne sul mio piatto. Mentre Bruna inforcava le sue tagliatelle io, non ancora troppo convinto, rimasi a guardare il mio piatto.

Notai uscire dalle fettine di tartufo dei puntini bianchi che pian piano si muovevano. Feci segno con occhiate e cenni del capo a Bruna di osservare meglio ciò che stava mangiando. Bruna rimase di sasso: erano tanti vermicelli bianchi che uscivano da quelle profumate e sottili fettine.

Senza far troppo clamore cercai di attirare l’attenzione del cameriere che prontamente accorso constatò quanto avveniva nel piatto. Scusandosi ritirava i piatti. Poco dopo veniva in sala, al nostro tavolo, un signore, probabilmente il proprietario, che si scusava per l’accaduto e dicendoci che ci avrebbe fatto servire altre tagliatelle senza il tartufo perché purtroppo i loro tartufi erano tutti nelle stesse condizioni.

Bruna, dopo la seconda maternità (1971) ritrovò il lavoro come cassiera in un cash and carry. Con la famiglia di un collega decidemmo di andare a Dovadola in occasione della Sagra e Fiera del tartufo con pranzo a Portico di Romagna presso il ristorante “Al vecchio convento”.

Bellissima sagra ancora ai primi vagiti (era la 4a edizione, oggi si conta la 49a), ma ancora meglio il ristorante locato appunto in un vecchio convento restaurato e adattato a trattoria, poi assunto a ristorante- albergo e menzionato anche nella guida Michelin.

Sul tavolo a noi riservato c’era un profumatissimo cestino con diverse generose patatine di tartufo. Mangiammo a crepapelle e affettammo a più non posso quelle aromatiche patatine. Ci fu anche chi le gustò col vino, tanta era l’abbondanza.

Alla fiera Bruna, l’esperta di casa, aveva acquistato alcuni tartufi di media taglia che consumammo con grande piacere olfattivo-gustativo con una ottima fonduta alla valdostana con i miei familiari ed altri parenti.

Ai miei figli, sebbene ancora piccoli quel meraviglioso tubero è subito piaciuto.

Tornammo anche negli anni successivi alla sagra del tartufo di Dovadola e al pranzo de “Al vecchio convento”. Nella Sagra c’era una gara fra i tartufai a chi presentava il tartufo più grosso e più profumato; una giuria di esperti assegnava quindi il trofeo “Tartufo d’oro”; trofeo riproducente, su una base marmorea, un grosso tartufo dorato.

Ricordo l’anno (1979) nel quale il tartufo risultato vincitore del trofeo venne dato in omaggio al Papa Giovanni Paolo II in occasione del suo primo anniversario pontificio. I giornali, poi, riportarono che il Papa ringraziò l’intera comunità di Dovadola per il generoso regalo che fu messo all’asta ed il ricavato devoluto alle opere di carità.

Gli anni successivi come detto tornammo, ma non trovammo più sulla tavola il cestino di tartufi: il secondo anno il tartufo fu abbondantemente affettato dal cameriere sulle tagliatelle e portato via; l’anno successivo fu con molta parsimonia affettato e quello richiesto in più, attentamente pesato e pagato a parte.

Oggi, dato il prezzo raggiunto dal tartufo, posso solo assaggiarlo sulle tagliatelle sciogliendo il burro al tartufo bianco della detta Urbani Tartufi di Sant’Anatolia in provincia di Perugia.

Purtroppo è tutto un altro sapore.

Guido Pasini

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Mabel Morri è nata a Rimini nel 1975, fondò nel ’99 la casa editrice indipendente “Studio Monkey”, attraverso la quale ha pubblicato la fanzine “Hai

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